L’ultimo dell’anno è giorno di bilanci e confessioni. Morten ne ha una da fare al suo amico di videogiochi Jim, un peso nel petto che inizia a inquietarlo. Riguarda la natura delle immagini di cui sono appassionati, la sensazione di non distinguere più il vero dal falso, il pensiero che la realtà sia un paesaggio virtuale e la sua vita soltanto un’interfaccia in perenne caricamento.
Scocca la mezzanotte e il microfono di Jim intercetta il baccano dei festeggiamenti. I due si augurano buon anno, poi Morten rimane solo mentre fuochi più che artificiali esplodono nel cielo del suo schermo. Happy New Year, Jim di Andrea Gatopoulos esprime un disagio che percorre sottotraccia l’intera sesta edizione del Varco Film Festival: quali spiragli d’azione per l’immagine cinema in un’epoca in cui altri media la esondano e la afferrano per la gola, quale futuro per l’umano se il suo senso perde di centro, la menzogna assume irriconoscibili i connotati della verità e la contraffazione digitale dilaga in strumento di propaganda tecnologica?
Sono questioni politiche non meno che teoriche perché indagano la solitudine e il crepuscolo di una società tossica, la nostra, fondata sulla performance e sulla competizione, incastrata in una sfrenata corsa per criceti di cui da tempo si è smarrito il traguardo.
Se Fairplay di Zoel Aeschbacher mostra quanto ingiusto sia il gioco al massacro che in Occidente distribuisce successi e miserie secondo logiche di mercato e reazioni social, The Mechanics of Fluids racconta un dialogo impossibile tra due malesseri, una deriva tra gli algoritmi che regolano i battiti dei nostri cuori, le conseguenze dell’odio e le possibilità dell’empatia.
L’autrice di questa lettera sperimentale, Gala Hernández López, si fa largo tra le tumultuose onde della rete per trovare un ragazzo non amato da nessuno, un incel, che su un forum anni prima ha annunciato il suo suicidio. Questa ricerca antropologica assume presto i lineamenti di una più ampia riflessione esistenziale sui rapporti umani, una critica dell’amore ai tempi di Tinder e la denuncia di una generazione sull’orlo del collasso perché incapace di adeguarsi a crudeli modelli identitari.
The Mechanics of Fluids è una mano tesa nel buio, un esperimento linguistico che scardina i limiti del cinema abbandonandolo in territori incerti, tra finestre informatiche e immagini disperate, un’opera ponte che a un morso rabbioso risponde con carezze di cura.
Se “infrangere la superficie” è il proposito della rassegna promossa quest’anno dal Varco, due sono le linee di frattura che incrinano il ghiaccio.
La prima, già nominata, attesta la crisi del cinema, le sue continue morti e rinascite, il suo precario ruolo di immagine sommersa tra le immagini, di illusione tra le illusioni, nel frastagliato orizzonte del contemporaneo. La seconda, all’opposto, afferma il residuale carattere di verità della parola cinematografica, indicando nuovi sentieri e prospettive in grado di spalancare le frontiere del reale, raccontando storie cruciali dei nostri tempi attraverso sguardi trasversali, inediti, ribelli.
Neighbour Abdi di Douwe Dijkstra e Will You Look at Me di Shuli Huang sono a quest’avviso esempi di quanto il documentario possa configurarsi come pratica disvelante di conoscenza di sé e degli altri, voragine da cui confrontarsi con fantasmi propri e collettivi, spazio aperto nel quale perdersi e incontrarsi.
L’esperienza di Abdi, designer somalo emigrato in Olanda con alle spalle un passato di indicibili violenze, e quella di Shuli, cineasta omosessuale cinese rinnegato dalla madre e dalla cultura patriarcale della sua nazione, condividono traiettorie narrative inconsulte e stili ibridi, forme diaristiche che intersecano memoria e desiderio, disorientano e allargano la vista dello spettatore. Nello specifico, il processo filmico tramite il quale Abdi insieme al regista si confessa, ricreando gli eventi della sua burrasca, origina una realtà di secondo grado, più profonda e radicale di quella primaria in quanto di essa ha esorcizzato il dolore, tramutato la sconfitta in riscatto, il naufragio in approdo.
La simile richiesta di essere guardato, riconosciuto oltre la sofferenza, che Huang fa alla madre armato di cinepresa è richiesta di cui solo un cinema privo di confini può farsi carico: un cinema che espande e denuda, travalicando futuri ancora da immaginare.